“La poesia, ancora?”. Una riflessione – ma anche una sfida e insieme un investimento sulla dimensione futura dell’essere umano – intorno al senso, al valore, alla necessità, all’incommensurabilità e talvolta anche all’urgenza della poesia, nel tempo dell’“infosfera”. La firma Gian Mario Villalta, poeta, saggista e narratore, direttore artistico di Pordenonelegge: esce oggi 28 ottobre, per Mimesis (170 pagine, 15 euro), nella collana “Punti di vista” diretta da Gianni Turchetta, il saggio che si interroga sul “perché ancora la poesia”, e così facendo coinvolge i lettori nella medesima indagine, e scava alle radici della domanda e della questione. «Se la poesia c’è da sempre, da quando gli esseri umani – gli animali parlanti – hanno percorso la terra, e sempre ci sarà finché le mutevoli lingue umane genereranno la sfera della loro esistenza; se nella lingua si stringe il nodo tra la formazione del senso della vita e i suoi valori, personali e comuni – si chiede, e al tempo stesso a noi domanda, Gian Mario Villalta – quanto ciò dovrebbe importare per la poesia? E quanto dovrebbe importare la poesia per la vita? Perché questo ancora, dunque?». Così Villalta nelle pagine di questo libro, attraverso questo ancora, si pone e ci pone domande, inseguendo risposte nella lingua e nella tradizione poetica.
La genesi di questo saggio è intrinsecamente legata al nostro tempo e a quel trionfo dell’“infosfera” che, giorno dopo giorno, guida l’essere umano verso una visione del linguaggio distorta e impoverita nella dimensione comunicativa, alla quale persino la poesia pare adeguarsi, dimenticando un’eredità poetica di millenni. «Antropologia e neuroscienze – spiega Gian Mario Villalta – raccontano oggi un’altra vicenda, nella quale la lingua è costitutiva della sfera dell’esistenza, e la comunicazione solo un suo aspetto; e di più: la prosodia, il suono delle parole e la voce del parlante sono sostanza del pensiero, del sentire e del percepire. Questo ancora significa avere nuove domande e inseguire le risposte nella lingua e nella tradizione poetica, riconoscendo allo strumento della scrittura e alla storia del libro il loro effettivo ruolo di primaria importanza».
«La fortissima accelerazione tecnologica – spiega ancora Villalta – ha inciso sull’esistenza in quanto corpo, memoria e comunità: minaccia di farci perdere quel profondo legame tra il nostro essere umani e il linguaggio che ci ha sospinto fin qui. La poesia, così come l’ho conosciuta fin da bambino, è sempre stata la prima nella contesa e l’ultima a lasciare il campo di questo confronto (…) Nella molteplicità dei nuovi mezzi rispetto agli antichi, rimane però fermo un dato di continuità: la differenza tra “giocare con le parole” e fare poesia c’è, e c’è sempre stata, non si creda a chi dice il contrario. Resta il fatto che, come per ogni virtuoso circolo di comprensione, ciò diviene chiaro solo quando si è fatta la strada necessaria per capirlo – breve o lunga che sia – e nessuno può percorrerla al posto di un altro (…) L’animale parlante sa manipolare la materia e produrre da una forma un senso che la sua mente rende operante in quanto configurazione e che, al confronto con la logica discorsiva, assume potenzialità simboliche (…) È l’arte che fa l’uomo, è questo suo irrinunciabile essere in sé e per sé necessità/desiderio di ri-creazione. E fa parte del diventare uomo l’essere comunità creativa. Non comunicare, nel senso che oggi è in uso, non trasferire informazioni, ma con-creare. Comunicare è quell’aspetto del “mettere in co­mune” i significati che costituisce un sistema sociale».

Gian Mario Villalta segue da molti anni il panorama poetico italiano, con particolare attenzione all’opera di Andrea Zanzotto. Tra i suoi libri di poesia più recenti ricordiamo “Vanità della mente” (Premio Viareggio 2011) e “Telepatia” (Premio Carducci 2016). Il suo ultimo romanzo si intitola “L’apprendista” (2020).

 

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