di Graziella Atzori

“Austria felix” è un’espressione sintetica che ben esprime lo spirito di tolleranza, il sentimento mitteleuropeo di unione e confronto pacifico e multietnico tra i popoli, tratto caratteristico dell’ex impero asburgico. Ne dà testimonianza Stefan Zweig nella sua autobiografia “Il mondo di ieri, ricordi di un europeo” (Mondadori, pp.392, 2017).
Il romanzo-saggio, spaccato fedele di un’epoca tramontata nell’assetto politico ma soprattutto nel sentire, nei valori umani, scorre in splendide pagine dense di riflessioni, attualissime oggi. L’impero, e Vienna che lo rappresentava, era la realtà sociale che concedeva la più vasta libertà individuale, mai più goduta dallo scrittore. Non si tratta, dunque, soltanto della malinconia di un esiliato ebreo perseguitato dal nazismo. Il testo è del 1941. Certamente, è questo, perdita delle radici e tragedia della Shoah, ma la sofferenza nasce anche dalla consapevolezza di una condizione che per l’autore non ha soluzione: “Il senso di massa e di gregge non aveva raggiunto nella vita pubblica la ripugnante potenza che ha oggi; la libertà dell’agire privato era considerata – cosa oggi appena concepibile – legittima e sottintesa; la tolleranza non veniva come oggi disprezzata e ritenuta debolezza, ma esaltata quale energia morale”.


È una denuncia lucida e forte della massificazione e uniformità del pensiero negli anni della seconda guerra mondiale. La Vienna antecedente alla prima guerra era un’autentica metropoli in cui tutti potevano trovare il proprio posto senza essere coartati. “Noi potevamo dedicarci indisturbati alla nostra arte, alle nostre predilezioni intellettuali, plasmando più personalmente l’esistenza privata. Potemmo anche vivere da cosmopoliti perché il mondo intero ci era aperto dinnanzi. Viaggiavamo senza passaporto e senza permessi dove ci piaceva, nessuno ci chiedeva le idee, l’origine, la razza o la religione”.
A Vienna aleggiava uno spirito giocoso, con i teatri, il culto della musica e delle arti, la frequentazione dei caffè in cui erano dispoibili gratuitamente le gazzette e le riviste non solo tedesche, ma francesi, inglesi, italiane. Nelle scuole si studiavano due e anche tre lingue. Fu una stagione miracolosa per la fioritura di talenti, in gran parte provenienti dell’intellighenzia ebraica. Bastino, tra molti altri, tre nomi di personalità geniali, maestri nei loro settori: Mahler, Hofmannsthal, Freud. Ricordiamo la grande Secessione viennese, rivoluzione in pittura. I giovani erano impregnati di alti ideali e sete di conoscenza. Anche a Trieste, porto di Vienna, si respirava la stessa aria di libertà, benessere economico, tolleranza religiosa. Joyce amò Trieste scrivendo a Nora, la moglie, di portarla nel cuore.
L’unione europea esisteva dunque nei fatti…
Le ombre di tanto splendore stavano nella rigidità dei programmi scolastici, nell’autoritarismo degli insegnanti; Zweig definisce il suo liceo “un carcere”.
Contrasto stridente con la situazione culturale della città, votata alla gioia e alla bellezza.
Un altro elemento conturbante, prodromo della futura dittatura, si intravedeva nella tracotanza e nelle prepotenze esercitate dalle corporazioni studentesche goliardiche. Già in quell’ultimo scorcio di secolo alcune associazioni universitarie, sulla scia di quelle germaniche, iniziavano a perseguitare gli studenti semiti, facendo della razza un motivo discriminante. Per tradizione medievale l’università costituiva un mondo a parte, difeso e arroccato su privilegi anche legali, tanto che la polizia non poteva penetrare negli edifici, che godevano un’immunità secolare. Entro le mura dell’ateneo i ragazzi ebrei venivano vessati e perfino manganellati e spesso scorreva il sangue.
Un capitolo centrale del libro è dedicato ai costumi sessuali dell’epoca, estremamente castigati e repressivi.
Già durante l’università Zweig, figlio di industriali abbienti, poteva permettersi viaggi all’estero, a Berlino, a Bruxelles, a Parigi. Ovunque tra intellettuali si respirava la stessa aria serena; egli offre ritratti memorabili di grandi artisti come Rodin, Rilke amatissimi e molti altri, pensatori come Rudolf Steiner, votati come lui stesso alla ricerca della libertà individuale. In nome di quest’ultima, rifiuta di far parte del movimento sionista, alieno e lontano per indole da ogni associazione, pur dando del suo fondatore, Theodor Herzl, la visione di un grande uomo generoso.
Lo seguiamo nelle vicende e nella tragedia crescente che lo porta ad emigrare in Brasile. Il nazismo da lui è visto come scatenamento di forze aggressive inconsce, è il male che cova in ognuno. Se non compreso e vinto dal bene, determina la fine della civiltà. Leggiamo:
“Noi fummo costretti a dar ragione a Freud, allorché egli riconobbe nella nostra cultura e nella nostra civiltà solamente un sottile diaframma, che ad ogni momento può essere sfondato dagli impulsi distruttivi del mondo sotterraneo, e noi abbiamo dovuto a poco a poco abituarci a vivere senza un saldo terreno sotto i piedi, senza diritti, senza libertà, senza sicurezza”.
Zweig morì suicida, insieme alla giovane moglie, a Petrópolis, Brasile, nel 1942. Fu vittima di una ricorrente crisi depressiva. Sento di affiancare al grande scrittore la figura di Catone, come la descrive Dante nella sua potenza morale: per essi meglio morire, rifiutare la vita, quando la libertà è morta.

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In copertina, e qui sopra, il libro di Stefan Zweig; all’interno, la prima versione in tedesco del lontano 1942.

La recensione è stata pubblicata anche da sololibri.net

 

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